Al Vajont sessant’anni dopo la catastrofe

Sono passati sessant’anni dalla tragedia del Vajont e, poco più di un mese fa, noi delle classi terze della SSPG di Dro siamo stati là per vedere con i nostri occhi cos’era successo.

La sera del 9 ottobre 1963, infatti, 300 milioni di metri cubi di roccia si staccarono dalle pendici del monte Toc e precipitarono nel bacino artificiale della diga del Vajont. Morirono circa duemila persone, in uno dei più gravi disastri ambientali causati dagli esseri umani. 

A scuola abbiamo studiato tanto su questo argomento: abbiamo visto un film, ascoltato il monologo di Paolini, letto il libro Vajont sessantatre, dalla montagna il tuono e alcuni racconti di Mauro Corona, analizzato alcuni articoli di Tina Merlin, studiato la storia e la morfologia della valle, creato un pieghevole in inglese e tanto altro, ma andare di persona al Vajont è stata un’altra cosa. Questa esperienza ci ha trasmesso una miriade di emozioni che tornati in classe abbiamo cercato di fissare sui nostri quaderni per poter riflettere meglio e non dimenticare quanti e quali danni terribili può provocare l’irresponsabilità umana.

Ecco alcuni dei pensieri dei ragazzi della 3A che speriamo vi possano trasmettere un po’ delle nostre emozioni e farvi riflettere: noi abbiamo imparato che ogni nostra piccola o grande decisione può fare la differenza.

Buona lettura!

  • Ansia e pensieri misteriosi, misti a curiosità, camminavano avanti e indietro per il mio cervello: era la sera prima del nostro viaggio, quando mi andai a coricare, ancora con la pancia piena e i capelli spettinati. Quella sarebbe stata la prima volta che i miei occhi avrebbero scoperto davvero quello che c’era sotto a tanti racconti, libri e monologhi sentiti in classe. Non potevo perdere l’occasione. La mattina, prima di partire per la grande avventura, guardai un’ultima volta il meteo nella speranza di un cambiamento ma dava sempre pioggia battente. Mangiai l’ultima fetta di pane con la nutella, mi lavai i denti, mi infilai gli scarponcini martoriati dopo anni di uscite di reparto con gli scout, e scesi le scale, con in spalla lo zainetto e nel cuore tanta curiosità e impazienza. Salii in macchina con la mamma e subito sentii nell’aria un’agitazione piena di voglia di scoprire, mai provata prima. Arrivammo davanti alla scuola e tutti i miei compagni erano saliti sul pullman; diedi allora un bacio alla mamma e andai di corsa all’entrata della corriera che ci avrebbe portati al Vajont.

 

  • Nella valle era come se si sentissero ancora le voci delle persone morte, come se le loro anime non se ne fossero mai andate da quel luogo a loro così caro.


  • La vista della diga del Vajont è un’esperienza che non può che suscitare un misto di emozioni contrastanti. Da un lato, la maestosità della struttura, con il suo imponente muro di cemento che si staglia contro il cielo, può ispirare un senso di ammirazione per l’ingegneria umana; dall’altro lato, la conoscenza della tragedia che si è verificata in quel luogo porta con sé un senso di sgomento e tristezza.


  • Mi sentivo strana mentre leggevo i nomi dei ragazzi morti stampati su quelle bandierine lungo la staccionata e mi chiedevo: “E se fossi io una di loro?”


  • Tutto intorno a me era tinto di grigio, come se qualcuno o qualcosa avesse rubato i colori. Niente sole, nessun albero rigoglioso e verde, nemmeno una persona e neanche un briciolo di vita. Era tutto come morto.


  • Dopo un po’ tempo il freddo ti entrava nei guanti e nel cappello e la nebbia era sempre più fitta; quando abbiamo attraversato il coronamento della diga, la nebbia se n’è andata solo per un attimo e abbiamo intravisto Longarone in fondo alla forra: che emozione pensare a quella notte del 9 ottobre 1963!


  • Stavo chiacchierando serenamente in pullman, quando sentii gridare: “Eccola! Laggiù, la diga!” In pochi secondi ci schiacciammo tutti contro il finestrino, per osservare in lontananza la maestosa diga. Sembrava guardare la valle sottostante come un re seduto sul trono guarda i suoi sudditi, fiera e consapevole del suo potere. Dopo la prima impressione, notai che stonava con tutto, con le montagne, gli alberi, i paesini e il cielo. Come se qualche gigante l’avesse presa e spostata da tutt’altra parte. Stonava. Un ammasso di cemento e bugie costruito alla perfezione. 
  • A Erto, scesi dal pullman, non c’era anima viva. Sembrava che l’onda della morte fosse ritornata e avesse spazzato via solo le persone.
  • A causa della fitta pioggia abbiamo potuto camminare sulla frana solo per poco tempo: mi sembrava strano che quel terreno sotto i miei piedi, tanti anni prima, fosse stato lassù in cima al monte Toc. Facevo fatica a pensare ad un disastro così grande e ancora di più ero incredulo per la stupidità dell’uomo. 
  • Al museo di Erto abbiamo visto tante fotografie sulla valle prima e dopo il disastro. Tutto era stato trasformato in un deserto: l’ambiente, le persone e soprattutto il loro cuore.

 

I ragazzi e le ragazze della 3A