Vajont: lettera di un sopravvissuto

A conclusione del lungo percorso di educazione civica e alla cittadinanza sul disastro del Vajont, a noi ragazzi delle classi terze della SSPG di Dro è stato chiesto di scrivere un testo in cui far emergere quanto avevamo appreso. 

Potevamo immedesimarci in un giovane ertano degli anni sessanta che scrive una pagina di diario prima della tragedia, o in un sopravvissuto al disastro che scrive una lettera ad un amico lontano o in un giovane inviato speciale del quotidiano “Corriere delle Alpi” che si reca nei pressi di Longarone la mattina del 10 ottobre 1963. 

Io ho scelto la seconda traccia dove Liliana scrive a Tobias, un suo coetaneo che se n’è andato dalla valle del Vajont prima della costruzione della diga. 

Questa è la mia lettera ed il disegno è della mia compagna di classe Gaia Sturiano.

 

Belluno, 10 novembre 1963

 

Caro Tobias,

come stai? Milano continua ad essere “la città delle opportunità?” Ti sei ambientato bene? È vero che i milanesi sono tutti dei tirchi con la puzza sotto il naso? 

 

Ti scrivo anch’io da un posto nuovo, lontano dalla mia casa ad Erto, le mie valli e i miei monti. Al momento non capirai nulla; ne è passata di acqua sotto i ponti da quando sei partito! Ma ti racconterò tutto, ho bisogno di un amico. 

Sono ospite in una casa nel centro di Belluno, insieme a due ragazzini di Casso. Qui tutti mi guardano come se fossi un cucciolo abbandonato, e tu sai quanto io odi la compassione. 

A volte sogno di tornare nella mia casetta ai confini del bosco, con le stalle di papà proprio sotto camera mia e il vento che faceva danzare le chiome degli alberi.   

Se mi concentro sento ancora la voce della mamma gridare: “Se non scendete in tre secondi, vi lascio fuori a dormire insieme alle vacche!” 

Ed io mi ricordo le corse spericolate giù per le scale, che si trasformavano in vere gare tra me e i miei fratelli. 

Se chiudo gli occhi, vengo ancora immersa dall’odore di muschio e di fresco del bosco; là passavamo giorni interi ad arrampicarci, come scoiattoli. Quante botte ci siamo presi! 

Ricordi, quando la sera, dopo cena, tiravi dei sassolini contro la finestra di camera mia per chiamarmi e chiedermi di uscire? Io ti guardavo, esasperata, e poi scoppiavamo a ridere. Scendevo di nascosto, rischiando una strillata di mamma al mio ritorno, ma sarei rimasta senza cena per mesi, pur di andare in giro con te tra le case addormentate del nostro paese. Come due vagabondi, dicevamo. 

 

Ti starai chiedendo perché questa ventata di nostalgia. 

Beh, mi sono rimasti solo questi, i miei ricordi. Sono l’unica ricchezza che ho. Erto, Casso, Longarone sono diventati solo ricordi. Ci hanno portato via la vita. 

Nel 1957, un anno dopo la tua partenza, arrivarono molti ingegneri e geologi nella valle. Avrebbero costruito una diga tra il monte Toc e il Salta: “Il grande Vajont”. Avrebbero bloccato il flusso del torrente, creando così un bacino artificiale che avrebbe alimentato una centrale idroelettrica. 

Ci dicevano: “La diga porterà ricchezze, lavoro e benessere. Diventerete delle piccole città!” 

E noi credemmo ai miracoli, senza sapere che ci avrebbero rubato la nostra linfa vitale. Quello fu l’inizio del progresso che ci avrebbe condannati tutti ad un tragico destino.

Ma, ormai, erano già partiti i lavori e non si sarebbero più fermati. Con le novità arrivarono anche i frequenti terremoti, crepe nelle case e nei cuori. Ci strapparono i nostri terreni, le nostre case e la nostra libertà. 

Nel 1960, con l’inaugurazione della diga, il nostro piccolo paradiso montanaro divenne un inferno senza luce. La diga era costruita di cemento e di bugie. Non eravamo più al sicuro. 

Si scoprì poco dopo che, sorpresa delle sorprese, il Toc non era un monte stabile e sarebbe crollato di lì a poco. Ma loro tacquero. Gli uomini sono schiavi dei soldi. Si aprì anche una crepa nel suolo larga vari centimetri e spessa chilometri, ma a loro non importava. 

 

Il vento fu il primo ad arrivare quella sera del 9 ottobre 1963, seguito da un boato simile ad un grido. Quattro minuti di paura, poi il Toc crollò nel bacino insieme alle nostre speranze, com’era stato previsto. Le stelle erano le uniche testimoni. 

Vorrei avere ora la forza delle stelle: brillano anche quando tutto intorno a loro grida di non farlo. 

Quasi duemila persone quella notte raggiunsero le stelle. A quel viaggio si unirono la mamma, il mio papà, mia sorella Lisa e il mio fratellino Antonio. 

La vita è ingiusta. No, loro, le persone che sapevano ma non hanno parlato, sono ingiuste. La verità è un privilegio, e noi non lo abbiamo avuto. Le vite hanno un valore, non in soldi. 

Io sono sopravvissuta, come avrai capito, caro Tobias, ma un pezzo del mio cuore è morto con la mia famiglia. Un frammento della mia anima è sepolto tra le macerie.  

Ci dovevano portare la luce, ma ci hanno rubato la luminosità della vita. 

A volte sogno di tornare nella mia casetta ai confini con il bosco, ma lei non esiste più. Rimarrà, però, nel mio cuore, e non me la potranno più portare via.

Grazie di avermi ascoltata, caro amico. Sapere che ci sei mi dà un po’ di sollievo.

Speriamo di rivederci presto.

 

               Liliana

di Grete Sommadossi Loner della 3A